

Negli ultimi mesi in Europa abbiamo assistito a un cambio di registro che dovrebbe allarmare più di qualsiasi “minaccia esterna”. Non sono solo gli arsenali a espandersi: è il vocabolario. Sempre più politici, commentatori e opinionisti parlano della guerra con una leggerezza sorprendente, quasi con una certa compiaciuta stucchevole virilità. Si invoca il riarmo come si proporrebbe un piano industriale, si parla di “inevitabile scontro” con la stessa naturalezza con cui si commenta un calo dei consumi o l’ultimo pettegolezzo modaiolo. In questo clima, chi osa pronunciare la parola “pace” viene trattato come un ingenuo, un disertore dell’intelligenza, quando non un pericoloso sovversivo. È un paradosso: l’Europa, entità immaginata sulle macerie di due guerre mondiali, sembra oggi più attratta dalla retorica della forza che dal ricordo della sua stessa storia. Non c’è prudenza, non c’è analisi dei costi umani; c’è un entusiasmo crescente per il linguaggio militare, come se la guerra fosse un rito di passaggio necessario per dimostrare maturità geopolitica. È una postura tanto muscolare quanto sciocca. Il discorso pubblico ha iniziato a considerare la guerra non più come soluzione sciagurata, oscena, inconcepibile, ma come uno scenario plausibile, accettabile, addirittura seducente. Questa mentalità è la vera minaccia alla sicurezza globale, perché trasforma la paura indotta e la povertà culturale in fatalismo, in miopia politica, in colpevole incoscienza. Invece di rafforzare la diplomazia e il diritto internazionale, li si scredita. Invece di investire nella mediazione e nella prevenzione dei conflitti, le si deride come presunti residui del passato. È un capovolgimento pericoloso: la saggezza viene ridicolizzata, l’avventurismo premiato. E intanto l’opinione pubblica, bombardata da slogan bellici, viene spinta a credere che la pace sia un lusso, una debolezza, quasi una colpa. Al pari viene fomentato il senso di insicurezza; ma a chi giovano i nemici? chi negli anni ha imperterrito foraggiato le guerre dell’altrove ha forse gettato la maschera? La verità taciuta è che parlare di guerra è facile quando non se ne pagano le conseguenze: chi invoca “più coraggio militare” raramente è chi siederà in trincea; da sempre chi parla di “inevitabilità del conflitto” lo fa con la leggerezza di chi considera la guerra un fenomeno astratto, non una realtà che devasta vite, economie, speranze, civiltà, l’ambiente stesso così già vilipeso. L’Europa ha costruito la sua identità sulla complessa capacità di evitare la guerra, non di accoglierla con becera abnegazione o convinta sventatezza. Dimenticarlo significa tradire non un’astrazione ma un’esperienza concreta: quella di genti che hanno imparato a caro prezzo che la pace non è mai scontata; che il linguaggio può avvicinare alla guerra quanto le armi stesse; che la guerra è un’ingiuria, sempre. Se oggi c’è una responsabilità urgente è questa: denunciare il nuovo bellicismo travestito da realismo e restituire alla parola “pace” il peso politico che merita. Non si tratta di una fuga dalla realtà ma di ciò che potrà impedire alla realtà di precipitare.