Catalogo - Scheda titolo

Jean Anthelme Brillat-Savarin
Fisiologia del gusto

Illustrazioni di Marco D'Aponte

Edizioni SEB27
L'Atalante - 7
Formato: 13x13
Pagine: 176
Anno: 2002
ISBN: 88-86618-28-X
Prezzo: €12,50

La Fisiologia del gusto è un’opera curiosa come curiosa è pure la sorte che pressoché due secoli di vita le hanno riservato. La fortuna di un libro spesso segue percorsi insondabili, crea – a torto o a ragione – monumenti dalla sacralità quasi inattaccabile, oppure muta col mutare delle mode, degli equivoci, delle intuizioni e degli abbagli. Ma può accadere anche che un libro attraversi le generazioni lasciandosi assimilare per quello che è, senza pretese; permettendo ad ognuno che lo incontri di prendere per sé quel poco o quel tanto che lo affascini o che semplicemente gli serva. Qualcosa del genere deve essere successo anche a questa raccolta di meditazioni sulla gastronomia. Della Fisiologia del gusto – dal 1825, anno della sua uscita – si sono susseguite, in una discreta serie, ristampe, riedizioni, traduzioni in varie lingue, versioni critiche, tirature di consumo ed edizioni di pregio. La sua fortuna è stata probabilmente tanto nella sua brillantezza e nella sua vivacità, quanto nei suoi limiti di opera disomogenea, a tratti obbiettivamente confusa o addirittura pedante. Infatti non di rado un redattore, un curatore o un traduttore è intervenuto ad esaltarne gli accenti considerati via via i migliori, a puntellarne i meno riusciti e a nettarne i peggiori. Si è tramandata così una sottile varietà di versioni – ognuna a suo modo gustosa – senza neppure l’assenza, di contro, delle debite rigorose ricostruzioni filologiche. Il nome di Jean Anthelme Brillat-Savarin è stato l’imprimatur per circoli culinari o associazioni di buongustai; ha battezzato un dolce ed un formaggio; in rete una ricerca superficiale ci indica qualche centinaio di siti che a lui in qualche modo riconducono. A parlare dell’opera e del suo autore si sono scomodati da Balzac a Roland Barthes; molte delle sue espressioni sono diventate, e non solo tra gli addetti ai lavori, frasi d’uso diffuso, e dall’uso a volte storpiate o ridotte a luoghi comuni. Resta tuttavia la sensazione che Brillat-Savarin sia stato talmente citato e considerato un classico da essere – non saltuario paradosso della buona sorte – ormai raramente frequentato. L’idea di proporre questa edizione è nata al tavolo di una vineria – per la precisione, una vineria con cucina – sorseggiando un nebbiolo in confortevole compagnia delle due tenutarie… e questa sembra già essere una benevola predisposizione. Tra i sorsi, l’idea si è trasformata in progetto e subito ci si è interrogati su quale tipo di traduzione, su quale tipo di redazione sarebbe stata più opportuna per i nostri intenti. Come era ovvio, date le circostanze, la scelta ha seguito più la strada dei sentimenti che quella della ragione. Ci sono tornati alla mente gli incontri fatti nelle nostre vicissitudini da bibliofili e frequentatori d’osterie; alcune saporite versioni che a cavallo tra otto e novecento presentavano al pubblico italiano l’opera del gastronomo francese. Si tratta di traduzioni che non temono il concedersi di certe libertà; che non sono prive di sensibili tagli giustificabili o di piccole omissioni arbitrarie; ma che rendono più che degnamente lo spirito genuino e felice dell’opera. Abbiamo allora, pur lanciando di tanto in tanto un occhio alla versione originale, voluto seguire questi arrangiamenti confrontandoli, riadattandoli, compensandoli, amalgamandoli senza però intervenire più di tanto su libertà e lacune. D’altronde lo spazio che c’eravamo concessi e il gusto per la leggerezza non ci avrebbero certo permesso la serietà dei filologi. Ha preso vita così il testo che vi presentiamo; un assaggio, un distillato, che al di là delle oggettive carenze, restituisce in pieno – con suono gradevole e sapore appetitoso – la voce e il fascino dell’opera di Brillat-Savarin. Crediamo di aver fatto un discreto lavoro; se non altro ci siamo sicuramente divertiti; e poi – parafrasando lo stesso Jean Anthelme – insomma, nel 2825 chi ancora ci leggerà? E oltretutto, nel 2825 chi di noi mai ci sarà, seduto a quel tavolo, ancora a bere?

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