

Vera Vigevani ci ha lasciato il 3 ottobre 2025. Era nata a Milano nel 1928. Forse il suo impegno nel tenere viva la memoria su due immense tragedie del Novecento le ha consentito di sopravvivere all’immenso dolore che ha segnato la sua vita. Di origine ebraica era scappata in Argentina a 11 anni con i suoi genitori per sfuggire alla persecuzione del regime fascista. Il nonno che era voluto rimanere a Milano morirà ad Auschwitz. Poi la dittatura di Vileda le ha portato via la figlia Franca, impegnata politicamente contro l’oppressione della dittatura. La ragazza aveva 18 anni quando è stata gettata nel vuoto con un volo della morte. Era stata proprio lei a non voler scappare in Italia per sfuggire al pericolo della persecuzione. Un destino che l’accomuna a quella del bisnonno. A Vera non è rimasta neppure un luogo dove poter portare un fiore né al nonno né alla figlia.
Vera Vigevani, che ha lavorato tutta la vita come corrispondente culturale per l’agenzia di stampa italiana Ansa, ha testimoniato davanti ai tribunali e nelle scuole. È stata presente ovunque con tutte le forme dell’ingegno umano si cercasse di mantenere vivi le idee, la dignità, la volontà di resistenza di quella generazione tanto massacrata a cui apparteneva la figlia, in particolare quella delle donne. Vera aveva apprezzato il libro Donne ai tempi dell’oscurità, di Norma Berti, che aveva riportato le voci delle detenute politiche nell’Argentina della dittatura militare. Era venuta a Torino nel 2009 per presentarlo. Proprio in quella occasione aveva detto di essere “socia” con l’autrice per il suo impegno verso i giovani e cosa lei gli dicesse quando le chiedevano consigli sul cosa fare concretamente. Lei raccomandava di essere vigili e riconoscere le avvisaglie che possano portare alla privazione e alla violazione dei diritti umani e non voltarsi invece dall’altra parte. Li invogliava a capire, a svelare connivenze e complicità, a uscire dai gusci che non proteggono e andare in piazza e rompere il silenzio, a non farsi abbindolare dal fanatismo, a non lasciare qualcosa di tanto serio come la politica alle vecchie generazioni. I militari diceva Vera dicevano che il silenzio è salud. E chiamavano pazze le figlie incarcerate e trucidate e le madres de Plaza de Mayo. “Noi eravamo pazze, ma pazze di dolore, e non ci siamo lasciate vincere dalla paura”.
Come le aveva anche detto Primo Levi, Vera sapeva che ci vogliono anni per essere ascoltati. La necessità di testimoniare deve coincidere con la disponibilità di essere ascoltati. Lo sapeva anche Esther Bejerano, sua coetanea anche lei perseguitata in quanto ebrea, che aveva lasciato Israele nel 1960 perché non sopportava che il suo popolo un tempo discriminato e perseguitato, fosse governato da chi si comportasse allo stesso modo con il popolo palestinese.
Vera considerava bene supremo la pace, a cui le azioni degli esseri umani dovrebbero tendere, benché negli ultimi anni della sua vita dovesse prevalere in lei il disincanto che mai nel mondo ci fosse stato un luogo e un tempo senza guerre e persecuzioni.